Gennaio - Febbraio 2021
IL MIO POSTO MAGICO
#3 - Caminia
Dalla pagina Facebook del 10 Gennaio 2021 di Stefano Marturini:
Su gentile ed affettuosa richiesta del mio "antico" amico Toni.
Caminia, romanzo breve ovvero vita raccontata
Stefano Marturini
Scriveva Jean Paul Sartre, filosofo esistenzialista della prima metà del novecento, in un suo ragionevolmente noto libro, La Nausea, che “…. La vita non è mai un romanzo quando la si vive, ma
è un romanzo quando la si racconta”. Ora che ho l’età nella quale puoi toccare, solo allungando la mano, “quel che resta del giorno…” comprendo davvero cosa voleva con quella consapevolezza
insegnarci. Ogni vita è un romanzo, e ciascuno di noi, la nostra storia, se ci è dato raccontarla o addirittura scriverla, è autentica letteratura vivente.
Molti capitoli del mio “romanzo” riguardano Caminia, passi di un libro che molto deve della sua trama ai giorni intrisi di intensa serenità e di pacata malinconia passati là, molte volte nel
corso degli anni in grande solitudine, quasi sempre con le persone che ho molto amato: mia moglie, i miei figli, i miei più cari amici. Alcuni divenuti cari proprio a Caminia.
Mia moglie, Silvana.
Ho incontrato quella che sarebbe diventata la compagna di tutta la vita all’università, oltre un quarantennio fa. Io romano di nascita e crescita, Lei calabrese di Francica, poi nell’età
elementare trasferita a Catanzaro e poi ancora, nell’adolescenza, a Roma.
L’ho amata molto in fretta, meno di una settimana, non solo per la sua bellezza, così calda e mediterranea, ma per qualcosa di possente che traspariva da tutta la sua personalità e che non
avevo mai incontrato in precedenza: un senso delle radici profondo, inalienabile, invulnerabile ad ogni evento dell’esistenza, vero, efficace porto sicuro dove riparare dal dolore e dalle
sofferenze, e inoltre aperto ad accogliere e, appunto riparare, tutti i propri cari e chiunque ne avesse fatto richiesta o ne avesse avuto, persino suo malgrado, necessità. Nel tempo ho scoperto
che molte donne calabresi sono così. O forse erano così.
Io, già precocemente figlio della società moderna, con genitori divorziati e radici costruite principalmente nel gruppo dei pari, ero affascinato e insieme intimidito da quella forza così
intensa, persino testarda, capace di imporsi senza esibirsi o ostentarsi.
E in quella fase, l’innamoramento, dove sapere tutto dell’altro è vorace, compulsivo, zona di confine tra sanità e follia, appresi la fonte di quella energia che mi avrebbe accolto, protetto,
consolato, dato senso per il resto della vita: Francica e…. Caminia!
Così, ho amato Caminia molto prima di averla mai vista.
Caminia, il luogo.
Il mio primo impatto con il mare a Caminia, agosto del 1978, fu travolgente. Ricordo che chiamai mia madre per dirle che qui l’acqua del mare è come quella che si raccoglie nel lavandino a casa
quando per qualche speciale abluzione chiudi lo scarico: stessa trasparenza. E il gioco incessante e vibrante sotto la brezza dei fondali bianchi, candidi, di sabbia, o scuri di uno spettro
ampio e variegato degli scogli, si lascia guardare anche a ingannevoli profondità, con una assenza di pudore che appare quasi oscena.
Dopo quel primo incontro non sono mai più entrato, in tutta la mia vita, in acqua ad Ostia, a pallida testimonianza dei cambiamenti che Caminia ha fatto nella mia vita, imponendomi tirannicamente
la sua bellezza.
Una corona di colline circonda completamente la baia e si estende con due propaggini di roccia pura ai due lati nel mare, quasi ad abbracciare la spiaggia di sabbia bianca e ammonire minacciosa
gli infedeli.
Insieme la corona ispira il rispetto che si deve alla regalità aspra e austera delle rocce vive che emergono sui versanti che scoscendono ripidi, precipitosi, affrettandosi al mare, come anche
loro non potessero resistere a tanta bellezza.
Il mare, sì il mare, anch’esso abbracciato, sfuma con le profondità e i fondali in ogni tonalità di azzurro e verde sotto la costa e poi, in prossimità di una retta ideale tracciata poco al
largo tra le due punte di roccia, assume un colore blu cupo, violaceo, profondo, inquietante, a segnare un confine come una sorta di colonne d’Ercole, oltre il quale l’ignoto e lo sconosciuto
attendono l’incauto navigante. Quasi nessuno, infatti, ha il coraggio di immergersi oltre quel confine.
La ferrovia, un lungo ponte che attraversa parte della baia, costruito a pietre, sospeso tra due gallerie scavate nella montagna, traccia un confine tra la spiaggia e una fascia di bosco,
custode di antiche memorie normanne, dove, chissà, forse sacerdoti druidi hanno lanciato l’incantesimo che sembra sospendere Caminia in quella sua particolare dimensione.
Caminia, l’Epopea
Una Epopea è una “… ampia narrazione poetica di gesta eroiche…”. Non potrei trovare un termine più coerente, quasi onomatopeico, per descrivere il racconto che i vecchi di Caminia, una sorta di
gruppo di nativi originali, mi hanno generosamente consegnato, quando anche io cominciai a frequentare Caminia, inizialmente l’estate, successivamente in qualunque periodo dell’anno. Di quel
gruppo originale non è restato nessuno. Noi, la nostra generazione, ne abbiamo in qualche modo raccolto il testimone. E i nostri figli sono pronti a raccogliere a loro volta il testimone, perché
qualcosa di questa magia è entrata anche in loro, come se il luogo avesse un potere teratogeno, in grado di inserire nel DNA dei malcapitati un gene che costituisce un imperativo biologico che
costringe ad amarlo e a non potersene distaccare.
Ho la fortuna di avere gestito molto dolore, personale e per scelta professionale. Il dolore è importante perché è l’unico vero maestro della vita. La gioia non insegna, il dolore può farlo
sempre.
Ciò che il dolore mi ha insegnato, tra le altre cose, è il grande segreto di non prendersi mai sul serio, cosicchè il Re è sempre nudo, e tu stesso sai di essere sempre nudo, qualunque sia il
vestito indossato. Questa attitudine mi ha donato una grande qualità, che affinata è divenuta persino talento: accostarmi con rispetto, con modestia, con grande desiderio di osservare, ascoltare,
capire gli altri in generale, culture diverse in particolare. Non vi è dubbio che la “cultura calabrese” ha sue specifiche caratteristiche. Una “etnia” intelligente, profonda, ma anche fatalista,
a tratti disincantata sino al cinismo, con importanti rituali comunicativi, quasi un codice crittografato incomprensibile e inintelligibile per gli “stranieri”.
Non fu facile superare l’autentica diffidenza, dietro la formale ospitalità, ma alla fine mi hanno accolto, facendomi sentire dei loro, e, grande dono, accettando e rispettando la mia di
diversità culturale.
Così sono stato messo a parte della narrazione comune, condivisa, dell’Epopea Caminiota.
Il gruppo originale, tra i quali il mio compiantissimo suocero, giunse a Caminia alla fine degli anni ’50.
Dormivano “su”, da Donna Lina, e la mattina scendevano alla spiaggia lungo un sentiero immerso tra gli ulivi e, a tratti, fichi d’india.
A mezza giornata da “su” portavano giù acqua, a dorso d’asino.
Il mare era un brulichio di vita straordinario, con ogni ben di Dio. I vecchi originali mi raccontavano della cattura di aragoste, laggiù, al porticciolo, una sorta di porto appunto naturale in
fondo alla baia, oltre la fine della spiaggia. Quando conobbi Silvana, lei conservava ancora molte reliquie di quel tempo sacro: conchiglie, stelle marine, cavallucci marini, gusci di ricci….,
cose che conoscevo dalle raccolte di figurine degli animali, ma che nel “mio mare” non avevo mai neanche lontanamente incontrato. E mi raccontava di quei trofei, lei una donna giovane adulta,
come frutto delle caccie giovanili, fatte in branco con la “banda” dei bambini Caminioti, con un misto di orgoglio, ma soprattutto di vividezza, impressionante vividezza, come se fosse tutto
presente e non già parte del passato.
E la stessa vividezza si ritrovava nei suoi amici e nei loro racconti, quando poi li ho incontrati e conosciuti, una sorta di memoria collettiva, potente come un archetipo.
La “banda” era numerosa e si formava regolarmente ogni anno, ai primi di giugno con la chiusura delle scuole, per sciogliersi ad ottobre, quando le scuole riprendevano appunto a ottobre, ma solo
per la “fastidiosa” e doverosa pausa invernale, per rinnovarsi puntuale e trepidante al giugno successivo. La loro vita, tutta la loro vita era Caminia e i mesi trascorsi là. Il resto, solo un
incidente dell’esistenza.
Caminia ha reso la narrazione di Silvana così potente da farla divenire parte della mia, come ci fossi stato anche io. E ho conosciuto molti partner, maschili e femminili, dei membri di quella
“banda” ai quali è accaduto lo stesso.
Gli adulti invece costituivano una sorta di comunità tribale. Più impegnati nella costruzione delle prime case per fare propria una parte di quel paradiso, per renderla permanente e concreta,
come solo pietre e cemento possono fare, e nello stesso tempo vivere una dimensione ludica, da isola felice, con legami e relazioni tra adulti dalle sfumature oniriche e utopiche.
Così forte il senso collettivo che i racconti dei vecchi, divenuti vecchi quando io li ho conosciuti, si configuravano come un corpo di narrazioni comuni di fatti, eventi e persino date, come
in un buon libro di storia, che potevi ascoltare nella stessa identica versione da chiunque di loro, solo declinata diversamente nel linguaggio, nelle intonazioni, nell’emozione richiamata.
C’era la storia dell’origine del nome: Caminia.
Si conoscevano 3 versioni, ciascuna con sostenitori e detrattori, che fornivano la base per bonari conflitti e molti reciproci sfottò.
Innanzitutto la proprietà del nome. Alcuni sostenevamo che in realtà Caminia si chiamasse Grillone. La versione era accreditata da un sorprendente numero di grilli che si spostava saltando
quando si camminava sul bordo della spiaggia, là dove il mare, anche cattivo, arrivava raramente e che quindi, tra la fine della primavera e l’inizio dell’estate, si inverdiva di erbe selvatiche
che riuscivano a dimorare sulla sabbia. E là i grilli trovavano un terreno fertile per le loro incombenze quotidiane, salvo doversi spostare, seccati, quando i bagnanti si accingevano al sole e
al mare, creando, nel loro saltare appunto, questo effetto onda. Questa versione era più diffusa nel gruppo dei bambini e difesa anche più calorosamente, persino oggetto della creazione di
fazioni che entravano in vere e proprie guerre, fatte di scontri, sequestri, prigionie, che sarebbero assolutamente risultate crudeli e cruente, se la scala fosse stata adeguata, ma come i
bambini nel loro scimmiottare con convinzione i conflitti degli adulti spesso fanno.
In realtà, il proprietario dei terreni su cui poi sorgeranno il gruppo di case/ville originali si chiamava proprio Grillone, la vecchia strada che scende al mare dall’antico tracciato della
106 porta il suo nome, a eterna memoria di quella proprietà, e quindi Il nome dato alla località era piuttosto una semplice sincresi tra il nome della località e quello del principale padrone
di quella stesa località.
Una seconda versione riteneva che il nome Caminia derivasse dai camini che servivano una antica fornace di mattoni che doveva avere sede nel luogo. Non ho mai però trovato qualcuno che sapesse
indicarmi il luogo esatto dove la fornace era collocata, non ve ne era memoria nemmeno tra i più vecchi del luogo.
La terza versione, infine, si riferiva ad un fenomeno tellurico per il quale sembra che la collina scoscesa che domina Caminia, con tutto il suo carico odierno di abitazioni, scivoli lentamente
a mare, quindi una sorta di aggettivazione vernacolare derivata dal “camminare”.
C’era la storia della fontana, quando già un piccolo acquedotto aveva messo a riposo il povero vecchio asinello, fontana contesa dai vari abitanti che costruivano le prime case. A questa fontana
veniva attaccato un tubo che portava l’acqua sino al luogo dove era necessaria. Quando qualcuno, per riempire qualche bottiglia o bidone d’acqua per l’uso domestico, staccava il tubo del fruitore
di turno, l’aria si riempiva di grida miste tra l’invocazione, l’esortazione e un tantino di minaccia che suonava: “ U’ Tubuuu…”, nella palese speranza di ripristinare l’utenza, ancorchè piuttosto
precaria, ma del tutto interrotta da altre necessità.
C’era la storia della luce elettrica, agognata per lungo tempo. Quando finalmente vi furono i primi allacci gli inseparabili amici/villeggianti del tempo, addobbarono le loro case con festoni
luminosi, li accesero e poi si spostarono tutti insieme su al Torrazzo, un affaccio a strapiombo che domina il mare sul versante Nord della baia, per vedere, per la prima volta Caminia illuminata.
E poi c’erano le storie del mare.
Le prime riguardavano la straordinaria ricchezza di quel mare. Un racconto narrato da molti spiegava che quando si avevano ospiti a pranzo ci si rivolgeva ad un ragazzo del luogo, Nicola, che era
così simbionte con l’acqua che gli si ordinavano letteralmente a’ la carte i menu desiderati, e lui, nel tempo di pochi minuti, riemergeva con l’ordine evaso.
Le aspre competizioni per la pesca che hanno generato una moltitudine di inutili uccisioni, in epoche nelle quali l’assenza dei congelatori rendeva le pesche amatoriali così abbondanti una inutile
crudeltà.
E i morti che il mare ha forse preteso come risarcimento per qualche eccesso umano che pure ha avvilito, offeso e umiliato la bellezza del posto.
Il mare di Caminia è insidioso. Spesso si alza un vento di ponente che lascia il mare sotto riva calmo e placido come un lago, con la risacca pressoché completamente ferma, ma fuori delle punte,
là dove dicevo il colore è inquietante, il mare sale di forza, e se il vento è teso diventa estremamente pericoloso per il pescaggio delle barche che Caminia ammette alla sua costa. E capita
spesso che il vento si alzi di notte, improvviso e violento, quando tanti dei pescatori amatoriali di allora amavano “andare a totani”. La vicenda racconta di tre di quegli amici, che appunto
andarono a totani, di notte e furono presi da questo vento che si chiama “vento di terra” e si persero a mare. Solo uno fu salvato, ritrovato il giorno dopo al largo, abbracciato alla bombola a
gas che si porta in barca per alimentare la lampara. Completamente incanutito.
Forse solo folclore, ma parte importante della bellezza di Caminia, che aiuta a costruire una storia che ti fa sentire di appartenere, essere e divenire parte della storia stessa.
Caminia, fine della storia.
Non vado a Caminia in agosto da molti anni. Non sopporto di vederla così ferita e umiliata da tanta gente indifferente alla sua bellezza, alla sua magia. Mi piace pensare che il luogo si prende
qualche rivincita martellando la costa di scirocco che fa maretta, infastidendo una folla chiassosa, irrivirente, inconsapevole di ciò che guarda senza riuscire a vederlo.
Torno dopo metà settembre, quando le ferite estive si sono rimarginate, i sedimenti e le scorie che l’umanità ha sollevato, si sono nuovamente posati e decantati.
E’ allora che i colori hanno perso i contrasti violenti dell’estate, hanno virato a pastelli più sfumati e delicati, il vento prevalente è di terra e il mare è spianato, straordinariamente
limpido, straordinariamente pulito, gli amici, che seguono e condividono gli stessi percorsi della mia anima, si ritrovano nei silenzi che amano e che non imbarazzano, e sento quel luogo come
parte di me e me come parte di esso.
Forse, un libro che disveli una storia, una capacità dell’occhio di cogliere livelli più profondi e consapevoli del bello e di ciò che dà valore e ci aiuta a dare senso, può aiutare ai compimenti
del carattere che sono scopo ultimo delle nostre esistenze e riuscire a farci vedere ciò che guardiamo.
Poteva succedere altrove? Poteva un altro posto intrecciarsi così profondamente con la mia vita da determinarne in parte persino il corso? Si, certamente, forse…
Ho avuto la fortuna per il mio lavoro di vedere molti luoghi della terra, ma la magia è scattata solo qui, a Caminia.
Forse… i Druidi… chissà.
#tonidirossieilmiopostomagico