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Il
nome “Elvin Jones” sarà sempre associato a John Coltrane e
alla famosa band John Coltrane Quartet
(1960-65), ma lui ha avuto anche una grande carriera come
bandleader ed ha continuato ad avere sempre più influenza durante
gli ultimi 30 anni.
E’ da considerarsi uno dei più grandi
batteristi di tutti i tempi (facendo da
ponte
tra l’hard bop e l'avanguardia). Elvin è il fratello più
giovane di una famiglia di musicisti straordinaria, che include
anche
Hank e Thad Jones.
Dopo avere trascorso circa 4 anni
nell'Esercito (1946-49), divenne parte integrante della scena del
jazz di Detroit, molto fertile nei primi anni '50. Lui si mosse a
New York nel 1955, lavorò con Teddy Charles
ed il Bud Powell Trio e registrò con Miles Davis e Sonny
Rollins (con il secondo la sua famosa Village Vanguard session).
Dopo aver lavorato con J.J. Johnson (1956-57), Donald Byrd (1958),
Tyree |
Glenn
ed Harry "Sweets" Edison, Elvin Jones divenne un
elemento essenziale del Quartetto di JohnColtrane, spingendo il
sassofonista innovativo ad altezze straordinarie e partecipando
alla maggior parte delle sue migliori incisioni.
Quando più tardi, Coltrane aggiunse Rashied
Ali alla sua band (1965) come secondo batterista, Jones non fu
compiaciuto, ed andò via presto. Egli fece un tour europeo con la
Duke Ellington Orchestra, e poi cominciò a formare i suoi
propri gruppi che negli anni ‘90 divenne noto come la Elvin
Jones's Jazz Machine. Fra i suoi collaboratori troviamo,
sassofonisti come Frank Foster, Joe Farrell, George Coleman,
Pepper Adams, Dave Liebman, Pat LaBarbera, Steve Grossman, Andrew
White, Ravi Coltrane
e Sonny Fortune; trombettisti come Nicholas Payton;
pianisti come Jan Hammer; bassisti come Richard Davis, Jimmy
Garrison, Wilbur Little e Gene Perla. Elvin Jones ha registrato
come leader per molte etichette incluso Atlantic, Riverside,
Impulse, Blue Note, Enja, PM, Vanguard, Honey Dew, Denon,
Storyville, Evidence e Landmark. — Scott Yanow.
Per
Elvin il suono non è mai cercato affondando pesantemente nello
strumento, come se fosse destinatario delle furie più recondite
del suonatore, ma traendo i suoni da esso, con un atto talvolta di
grande energia ma mai violento, sempre rispettoso. Si pensi
all’atto di colpire un gong: se il colpo fa rimanere la mano
nella direzione dell’impatto, il gesto sarà scattante ed il
suono ne risentirà negativamente; se invece la mano si ritrarrà
elasticamente, quasi a simulare un prender per mano il suono per
farlo giungere all’orecchio, la rotondità gestuale produrrà un
suono ricco e pervasivo.
Il tocco di Elvin è tutto ciò. E’ una sonorità
dove i singoli strumenti (tamburi e piatti) perdono la loro
identità a favore di un magma che è la loro fusione lavica,
quasi il singolo movimento non fosse responsabile di un solo suono
ma di tanti di più, ed anche della risonanza degli strumenti non
attivamente colpiti. Elvin spiega questo concetto parlando della
batteria come di un unico strumento e non un assemblaggio di vari
pezzi. Per ottenere il giusto melange di suoni egli ha lavorato a
lungo sull’equilibrio fra precisione ritmica e respiro della
pulsazione, tanto che al profano può sembrare che Elvin ondeggi
sul metronomo. Elvis ondeggia e come. La sua sonorità sferica
insieme smussa gli angoli della suddivisione meccanica del tempo,
alleggerisce la scansione e la rende swingante, giocando intorno
al clic con una ingenuità così naturale da essere
inimitabile.
Ciò spiega anche la inaudita ricchezza di armonici
della sua batteria, malgrado un’accordatura estremamente tirata:
i tamburi, in partenza acutissimi, riacquistano pienezza grazie al
gesto tondo, a una presa morbida della bacchetta e a una
centratura posturale esemplare, a onta della seduta piuttosto alta
adottata negli ultimi anni. (drumside.com) |