ELVIN JONES (9/9/1927)

   Il nome “Elvin Jones” sarà sempre associato a John Coltrane e alla famosa band John Coltrane Quartet  (1960-65), ma lui ha avuto anche una grande carriera come bandleader ed ha continuato ad avere sempre più influenza durante gli ultimi 30 anni. 

   E’ da considerarsi uno dei più grandi batteristi di tutti i tempi (facendo da  ponte  tra l’hard bop e l'avanguardia). Elvin è il fratello più giovane di una famiglia di musicisti straordinaria, che include anche  Hank e Thad Jones.

   Dopo avere trascorso circa 4 anni nell'Esercito (1946-49), divenne parte integrante della scena del jazz di Detroit, molto fertile nei primi anni '50. Lui si mosse a New York nel 1955, lavorò con Teddy Charles  ed il Bud Powell Trio e registrò con Miles Davis e Sonny Rollins (con il secondo la sua famosa Village Vanguard session). Dopo aver lavorato con J.J. Johnson (1956-57), Donald Byrd (1958), Tyree 

 Glenn ed Harry "Sweets" Edison, Elvin Jones divenne un elemento essenziale del Quartetto di JohnColtrane, spingendo il sassofonista innovativo ad altezze straordinarie e partecipando alla maggior parte delle sue migliori incisioni. 

  
Quando più tardi, Coltrane aggiunse Rashied Ali alla sua band (1965) come secondo batterista, Jones non fu compiaciuto, ed andò via presto. Egli fece un tour europeo con la  Duke Ellington Orchestra, e poi cominciò a formare i suoi propri gruppi che negli anni ‘90 divenne noto come la Elvin Jones's Jazz Machine. Fra i suoi collaboratori troviamo, sassofonisti come Frank Foster, Joe Farrell, George Coleman, Pepper Adams, Dave Liebman, Pat LaBarbera, Steve Grossman, Andrew White, Ravi Coltrane  e Sonny Fortune; trombettisti come Nicholas Payton; pianisti come Jan Hammer; bassisti come Richard Davis, Jimmy Garrison, Wilbur Little e Gene Perla. Elvin Jones ha registrato come leader per molte etichette incluso Atlantic, Riverside, Impulse, Blue Note, Enja, PM, Vanguard, Honey Dew, Denon, Storyville, Evidence e Landmark. —
Scott Yanow.

   Per Elvin il suono non è mai cercato affondando pesantemente nello strumento, come se fosse destinatario delle furie più recondite del suonatore, ma traendo i suoni da esso, con un atto talvolta di grande energia ma mai violento, sempre rispettoso. Si pensi all’atto di colpire un gong: se il colpo fa rimanere la mano nella direzione dell’impatto, il gesto sarà scattante ed il suono ne risentirà negativamente; se invece la mano si ritrarrà elasticamente, quasi a simulare un prender per mano il suono per farlo giungere all’orecchio, la rotondità gestuale produrrà un suono ricco e pervasivo. 

   Il tocco di Elvin è tutto ciò. E’ una sonorità dove i singoli strumenti (tamburi e piatti) perdono la loro identità a favore di un magma che è la loro fusione lavica, quasi il singolo movimento non fosse responsabile di un solo suono ma di tanti di più, ed anche della risonanza degli strumenti non attivamente colpiti. Elvin spiega questo concetto parlando della batteria come di un unico strumento e non un assemblaggio di vari pezzi. Per ottenere il giusto melange di suoni egli ha lavorato a lungo sull’equilibrio fra precisione ritmica e respiro della pulsazione, tanto che al profano può sembrare che Elvin ondeggi sul metronomo. Elvis ondeggia e come. La sua sonorità sferica insieme smussa gli angoli della suddivisione meccanica del tempo, alleggerisce la scansione e la rende swingante, giocando intorno al clic con una ingenuità così naturale da essere inimitabile. 

   Ciò spiega anche la inaudita ricchezza di armonici della sua batteria, malgrado un’accordatura estremamente tirata: i tamburi, in partenza acutissimi, riacquistano pienezza grazie al gesto tondo, a una presa morbida della bacchetta e a una centratura posturale esemplare, a onta della seduta piuttosto alta adottata negli ultimi anni. (drumside.com)

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